Salvo il lavoratore che in una ‘mailing list’ critica aspramente l’azienda
Fondamentale, in generale, che le espressioni incriminate siano contenute in un comunicazioni dirette ad un determinato gruppo di persone

Le espressioni offensive nei confronti del datore di lavoro non possono costituire giusta causa di licenziamento laddove siano contenute in comunicazioni dirette ad un determinato gruppo di persone e non ad una moltitudine indeterminata, non configurandosi in tal caso contenuti diffamatori idonei a ledere la reputazione aziendale.
Questo il punto fermo fissato dai giudici (ordinanza numero 33074 del 18 dicembre 2024 della Cassazione), i quali hanno sancito la vittoria definitiva di un lavoratore finito nel mirino dell’azienda e addirittura poi licenziato a causa di alcune critiche condivise con i componenti di una ‘mailing list’.
In sostanza, le frasi oggetto della contestazione, per quanto contenenti espressione di forte critica con l’uso di un linguaggio certamente non consono, non erano rivolte all’azienda, né aperte alla visibilità di terzi estranei al gruppo della ‘mailing list’, per cui non possono configurarsi, a parere dei giudici, contenuti diffamatori. Anche perché, come noto, la ‘mailing list’ è uno strumento di discussione utilizzabile dai soli utenti iscritti e inseriti dall’organizzatore in una lista di indirizzi di posta elettronica. Dunque, per tale motivo, l’azione di critica, pur esorbitando, nello specifico caso, i limiti di una continenza formale, non ha scalfito la reputazione della società, in quanto il contesto nel cui ambito l’esternazione è avvenuta era necessariamente limitato ad un gruppo ristretto di soggetti e non esteso ad un numero indefinito di persone.
Esclusa, quindi, contrariamente a quanto sostenuto dall’azienda, la giusta causa di licenziamento.