Smartworking per il lavoratore disabile se ne ha già usufruito durante la pandemia

Secondo i giudici, lo smartworking può rappresentare un ragionevole accomodamento e può realizzarsi in sede negoziale, ma, in mancanza di accordo, la soluzione del caso concreto deve essere individuata caso per caso

Smartworking per il lavoratore disabile se ne ha già usufruito durante la pandemia

Smartworking per il lavoratore disabile, nonostante l’opposizione dell’azienda, se ne ha già

usufruito durante la pandemia.
Questa la decisione presa dai giudici (sentenza numero 605 del 10 gennaio 2025 della Cassazione) a chiusura del contenzioso tra una grossa azienda e un dipendente, contenzioso originato dalla richiesta avanzata dal lavoratore, invalido e con problemi visivi, per vedersi riconosciuta la possibilità di svolgere le proprie mansioni da remoto.
Inutili le obiezioni sollevate dall’azienda e mirate a porre in evidenza che le norme in materia richiedono la sottoscrizione di un accordo individuale e prevedono la facoltà di recesso di entrambe le parti in caso di accordi a tempo indeterminato.
Confermata in Cassazione, invece, la decisione che, presa in Appello, ha imposto sine die all’azienda il riconoscimento dello ‘smart working’ per il dipendente, pur in assenza di accordo tra le parti.
Partendo dal quadro generale, i giudici ribadiscono che la considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittime finalità di politica occupazionale, postula l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei soggetti disabili. In sostanza, in tema di comportamenti datoriali discriminatori, il termine di paragone è rappresentato dalle modalità della prestazione per i lavoratori non portatori di gravi disabilità, e la questione degli accomodamenti ragionevoli possibili e praticabili in concreto si sposta sul piano della prova, e su tale piano è necessario prima verificare l’effettiva praticabilità di ragionevoli accomodamenti per rendere concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile e poi appurare se il datore di lavoro si sia trovato o meno in una situazione di impossibilità di adottare gli accomodamenti organizzativi ragionevoli, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto.
I magistrati si soffermano poi sul concetto di ragionevole accomodamento organizzativo, che, cioè, senza comportare oneri finanziari sproporzionati per il datore di lavoro, è idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buonafede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.
Ebbene, nella vicenda presa in esame, la soluzione è, secondo i giudici, lo ‘smart working’ dall’abitazione, già utilizzato nel periodo pandemico. E tale ragionevole accomodamento può realizzarsi in sede negoziale, ma, in mancanza di accordo, la soluzione del caso concreto deve essere individuata dal giudice, precisano dalla Cassazione, respingendo seccamente la tesi proposta dalla società datrice di lavoro.
Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati pongono in rilievo il carattere vincolante dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli, il cui rifiuto costituisce la discriminazione vietata, poiché la violazione dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli si traduce nella violazione di doveri imposti per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad una persona con disabilità di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, realizzando così una discriminazione diretta.

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